Il Teatro di Varese e il suo direttore, Filippo de Sanctis, la scorsa settimana hanno organizzato un incontro con alcuni candidati alla Regione Lombardia sul tema: "Varese è cultura?".
L'iniziativa ha suscitato reazioni positive e al contempo delle critiche, come quelle espresse da Clara Castaldo per Artevarese, che abbiamo riportato sulla fan page del Castello di Masnago.
Adriano Gallina, direttore di teatro e docente universitario, che non è nuovo a interventi sul tema della cultura in Italia come ben si comprende dalle sue pubblicazioni e dal suo blog (http://adriano-gallina.blogspot.it/), ha accettato per i Musei civici di mettere nero su bianco alcune idee.
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La compagnia Coltelleria Einstein di Alessandria
da http://adriano-gallina.blogspot.it/ |
Se posso intervenire - dal
piccolo "pulpito" di concretezza attestatomi nell'articolo
di Clara
Castaldo - mi pare che alcuni dati siano indiscutibili:
1.
Ancora
una
volta (ma quanto ci siamo abituati?) dal tavolo dei politici
- con le dovute
eccezioni -
2.
L'appello
al
dialogo virtuoso tra pubblico e privato lungo l'asse della
sostenibilità
economica della cultura di qualità - in qualche misura
ripreso nell'articolo -
è invece ormai il prezzemolo (un po' allucinatorio) della
nostra minestra
quotidiana "ai tempi
del colera del
welfare".
Di
quale "privato" stiamo parlando, infatti? Del crowfunding? Dell'impresa? Delle fondazioni
bancarie? Degli
spettatori?
In
tempi di crisi nera - che ricade anche e soprattutto sui
cittadini - crolla
irreparabilmente la domanda di base (e
analogamente crollano, se mai vi sono state, pressoché tutte
le forme di
mecenatismo individuale
collegate al
settore culturale); l'impresa - il nostro piccolo "lunpenkapitalismus" brevimirante - non ha mai
costituito in
Italia una credibile risorsa per cultura, se non come fonte
di marginali economie
accessorie; rimangono le fondazioni bancarie, ovviamente: ma
vorrà pur dire
qualcosa il fatto che - a fronte di una Fondazione Cariplo
che persiste
incredibilmente ed onorevolmente ad investire 19,5 mln annui
sul settore
culturale - si accompagni, in parallelo, una Regione
Lombardia che ha
disimpegnato nell'arco degli ultimi 10 anni (nell’Era
Albertoni-Zanello-Buscemi-Aprea) circa l'80% delle risorse e
che, da qui al
2015, prevede ulteriori tagli del 74%, attestando la spesa
sull'ordine dello
0,01%? Questa non è
crisi. E'
elementare delega al privato di una funzione suplettiva pubblica, e
Fondazione Cariplo è - oggi - il vero ed unico assessorato
alla cultura della
Lombardia.
3.
Le
imprese
culturali quindi, da un lato, hanno imparato a maneggiare ed
interpretare
correttamente i bandi, a professionalizzarsi, a dialogare
con le Fondazioni
bancarie
Dall'altro
lato, tuttavia, non riteniamo che sia una necessaria
istanza politica
(prima ancora che un
bisogno delle
organizzazioni
culturali) chiedere, pretendere, che l'ente pubblico faccia il proprio mestiere anche in
quest’ambito, consideri la
cultura come "pubblico
servizio",
la sostenga decorosamente,
ne
interpreti correttamente (e ne indirizzi)
le possibili dinamiche anche economiche, di crescita, di
sviluppo?
E che
questo sia perseguibile - rivalutando le priorità ed invertendole, se necessario - anche nel quadro
dell'attuale crisi?
E che,
quindi, la scelta anche in questo campo sia sostanziale scelta politica e non, come a volte vogliono
farci credere, una
sorta di "legge naturale" della grande depressione,
dell'Europa, del
Mondo, del Sistema Solare?
4.
Quanto
infine
alla critica mossa dall'articolo al "senso" del dibattito,
muoverei
da una duplice riflessione: da un lato la presenza diffusa
di operatori (che è
del resto quasi una costante di queste occasioni
pre-elettorali) non é che una
nuova conferma del fatto che il mondo della cultura ha la
necessità di
confrontarsi con
l’universo della
politica. Di cogliere
l’attimo di
un momento di interlocuzione sui programmi e sulle
prospettive, sebbene a
volte, purtroppo, con l'atteggiamento che il ministro Bondi
qualche anno fa
ebbe la bontà (e lo stile) di definire "accattonaggio"). Il contrario non avviene
quasi mai, se non
nei termini della captatio
benevolentiae
pre-elettorale.
Non eccederei invece (pur apprezzando, davvero, l'entusiasmo
di Filippo De Sanctis che ha organizzato l’incontro)
nell'attribuire all'iniziativa un senso in prospettiva
più elevato di quanto non abbia avuto: all’Apollonio gli
operatori non si sono incontrati per un dialogo tra loro (per un
“dià-logos”, un confronto
di ragioni ed orientamenti volto ad una possibile (?) sintesi più alta, sul
piano teorico ed operativo). Del resto, probabilmente, non era
quella la sede e personalmente sono molto pessimista, in via
generale, sulla reale possibilità di oltrepassare – motu proprio - una
dimensione sostanzialmente monadica
dell'arcipelago culturale, non solo varesino. E questo valga in primo luogo per me.
5.
Che
un arcipelago
esista (con il suo
portato topologico,
che rimanda all’immagine di isole
ben circondate dal
mare e con
pochi traghetti e che tuttavia compongono
un’area geografica univoca e, a suo modo, omogenea),
è però indiscutibile. A dispetto della un po’ stinta litania
secondo cui a
Varese vi sono poche occasioni di crescita culturale, è
sufficiente “fare un
giro” sui media online (varesecultura in testa, oggi) per
verificarne al
contrario quotidianamente la densità e la frequenza: a
Varese accadono, oggi,
moltissime cose. Segnate a mio modo di vedere da profondi dislivelli - qualitativi, economici ed
organizzativi - ma accadono.
Quel
che occorre chiedersi, quindi, è semmai se questo
“Tutto” varesino - che emerge dalla semplice somma delle parti - sia sufficiente. O se - al
contrario e con un
paradosso matematico caro alla teoria dei sistemi - non
produca in realtà attualmente,
proprio perché frammentato in isole non interconnesse, molto meno delle sue effettive potenzialità.
Fuor
di teoria: non è forse giunto il momento di chiederci se un
tentativo di “porre
a sistema” l’esistente, tentando di facilitare visioni
artistico-culturali unitarie
(ma soprattutto unitari
percorsi promozionali, organizzativi, economici) non
consentirebbe oggi di lasciar
emergere qualità globali assolutamente
superiori alla somma delle parti?
E’ una
domanda lecita, mi pare.
6.
Da
questo
angolo visuale, peraltro, è interessante rilevare come –
anche storicamente,
nel nostro Paese – i percorsi più o meno ben riusciti di
aggregazione tra
organismi culturali non si siano mai
avviati spontaneamente,
ma sempre in
presenza di chiari indirizzi ed incentivi di derivazione istituzionale (penso al vecchio bando Cariplo
sulla costituzione di
reti, per esempio; o all’invito alle fusioni
presente nel regolamento ministeriale Veltroni sullo
spettacolo del ’99). Occorre
un catalizzatore
istituzionale, in
breve, che attivi – per restare nella metafora
fisico-chimica – gli elementi di
potenziale “attrazione magnetica” tra le organizzazioni
culturali,
facilitandone (e rendendone concretamente
interessante) l’accostamento, in vista di più interessanti
ed emergenti
risultati d’insieme.
E’ nella
promozione concreta di
percorsi di questa
natura – sia pur nella loro
complessità – che potrebbe trovare a mio avviso senso
profondo (e in fondo
anche più matura dignità)
la funzione
politico-istituzionale
in campo
culturale. Non nella distribuzione di misere regalìe più o
meno ben mirate, né –
men che meno – nell’assunzione diretta
di funzioni produttive
o artistiche e
nemmeno, in fondo, nella cooptazione di singoli
soggetti cui viene affidato il compito di “unirsi e
prolificare”: ma, al
contrario, in
un’analisi dei bisogni e
nella conseguente promozione di forme e
contenitori – sostenuti economicamente, ovviamente nei
limiti del possibile
ma decorosamente – che agevolino l’incontro tra
organizzazioni e la
progettazione di sistemi
culturali. L’idea
– contro ogni obiezione di dirigismo –
è che l’universo della politica si configuri come reale
luogo di produzione di indirizzi su percorsi
(non su contenuti) che, legittimamente, vengono
ritenuti più utili e
proficui per la città e, quindi, maggiormente meritevoli di
incentivazione. Si
tratterebbe anche per il Comune, del resto, di una qualificazione (e razionalizzazione) della
spesa. Il tutto, a mio
modo di vedere, lungo un’idea seria
di funzione pubblica della cultura.
Riprendendo
per l’ultima volta (giuro!) la metafora “campaniana” degli
orticelli: inutile
sperare che, spontaneamente, i piccoli e piccolissimi
latifondisti abbattano le
loro enclosures,
ma – forse – una chiara
indicazione (eterodiretta) dell’esistenza di incentivi
all’apertura degli
steccati e alla progettazione di nuove colture potrebbe
aiutare. Credo che l’apertura
al dibattito offerta da Varesecultura e dal blog del
Castello di Masnago (che
ringrazio per l’ospitalità) sia – possa essere – un
interessante passo in
questa direzione.
Una
domanda, credo, non accademica.
Grazie
per l’accoglienza.
Adriano
Gallina